Letteratura su Nemi
Molti autori, italiani e stranieri, hanno scritto su Nemi. Essendo Roma una delle tappe obbligate del Grand tour, il viaggio di perfezionamento culturale dei ricchi rampolli dellaristocrazia e della borghesia dEuropa e dAmerica, era facile che i viaggiatori visitassero anche i dintorni della capitale. Abbiamo perciò molti appunti di viaggio, diari, racconti e poesie ambientati qui (il più illustre di questi reportages è probabilmente il Viaggio in Italia di Goethe). E poi ci sono scritti di autori italiani. Citeremo solo i più importanti da un punto di vista letterario.
Gabriele DAnnunzio, Elegie romane
Sul lago di Nemi - Villa Cesarini
Era il ritorno. Il sole spandea per i boschi ducali,
precipitando, un fuoco torbido. Ma su lacque,
chiuse da quel gran cerchio di tronchi infiammati, un pallore
cupo regnava. Raggio non le feriva alcuno.
Chi nel divino grembo del lago adunava tantira?
Livide, mute, lacque minacciavano;
come dun lungo sguardo nemico seguivano il nostro
passo; vincean dun freddo fascino i nostri cuori.
Una paura ignota ci strinse. Pensiero di morte
Illuminò dun lampo lanima sbigottita.
Parvemi andar lunghesso un lido letale, uno Stige;
e dellamata donna lombra condurre meco.
Tutte di nostra vita lontana le immagini vaghe
Si dissolveano; ed ecco, tutto era morte in noi,
tutto; ed il nostro amore, il nostro dolore, la nostra
felicità non altro eran che morte cose.
Oh visione aperta per sempre allanima mia!
Rapidamente lacque soscuravano.
Senza tremare, immote, opache, celando labisso,
più minacciose lacque parean volgere
al malefizio i cieli. Le nubi piombavano sopra;
stavano i boschi sopra, nel grande orrore.
Quasi era spento il fuoco per laria; ma ultima ardeva
Come una face in Nemi rossa la torre orsina.
George Gordon lord Byron
Byron è stato qui. Arrivò a sera, dopo un viaggio che immaginiamo leggermente avventuroso e sicuramente stancante (lAppia affollata di zanzare malariche e di briganti); prese alloggio alla locanda de Sanctis, cenò, dormì sodo. Si affacciò la mattina dopo, e vide il lago ai suoi piedi, incastonato nel verde, tondo come un ombelico fra i colli boscosi. Era una mattina ventosa; il cielo grigio infuriava di libeccio, e gli alberi erano scossi fin dalle radici; ma il lago sincrespava appena. Lo sapeva, Byron, che qui viveva Diana? Glielo avrà detto il cameriere che gli portò lacqua calda per radersi, o forse già laveva appreso dalle conversazioni coi suoi amici romani, i principi Spada e gli altri? Era il 1817. Napoleone scuoteva lEuropa, e il Romanticismo infuriava. Byron giocava alla rivoluzione e seduceva le mogli degli altri. Nei giorni precedenti, a spasso in carrozza per la campagna coi suoi amici, sera fermato a pranzo a Squarciarelli. Sera incapricciato duna splendida cameriera, fra un bicchiere di vino e laltro, un po per scherzo, un po sul serio, laveva chiesta in sposa. La ragazza aveva risposto, rivolta al nobile romano che fungeva da interprete: Dite così a Sua Eccellenza che nun lo posso sposà, perché nun è romano. "Huge!" commentò lui, grandioso! E gli venne la voglia di conoscere meglio i Castelli Romani e, immaginiamo, le Castellane...
Andandosene da Nemi, nel registro dei visitatori della locanda lasciò scritti dei versi, che lanno dopo inserì nel IV canto del Childe Harolds pilgrimage:
Lo, Nemi! navell'd in the woody hills ed ecco Nemi! Incastonato a ombelico fra le colline boscose
So far, that the uprooting wind which tears così lontano che il vento furioso che svelle
The oak from his foundation, and which spills la quercia dalle radici, e che versa
The ocean o'er its boundary, and bears loceano fuori dai suoi confini, e porta
Its foam against the skies, reluctant spares la schiuma contro i cieli, risparmia a malincuore
The oval mirror of thy glassy lake; lo specchio ovale del tuo lago di vetro
And calm as cherish'd hate, its surface wears e calma come lodio nascosto, la superficie ostenta
A deep cold settled aspect nought can shake, un aspetto inalterabilmente profondo e freddo che niente riesce a scuotere
All coil'd into itself and round, as sleeps the snake. tutto raggomitolato in tondo su se stesso, come dorme il serpente.
CLXXIII ottava versi 1550 sgg.
Per gentile concessione del prof. Ian Zahle dellAccademia di Danimarca abbiamo anche le poesie che un poeta danese dellOttocento scrisse ispirandosi ai nostri luoghi. Ancorché per il pubblico italiano si tratti di un nome pressoché sconosciuto, le liriche sono pregevoli, e le riportiamo qui di seguito.
Ludvig Bødtcher (1793-1874)
Poesie
Versione italiana di Maria Giacobbe©
Forord Jan Zahle
Ludvig Bødtcher Dan Ringgaard
Sera ad Ariccia
Incontro con Bacco
Nemi
Mattinata a Nemi
Ritorno a Nemi
Il pescatore di Nemi
A Thorvaldsen
Piazza Barberina
Efterord Maria Giacobbe
ACCADEMIA DI DANIMARCA© 2000
Sera ad Ariccia
Qui dove il forte spirito del monte
paternamente con mano amorosa
al fiammeggiante sole del tramonto
solleva i fusti della selva annosa,
qui dove un crocefisso fu inalzato
nudo di fronde ma pei fedeli ornato
come il più verde albero del bosco,
qui sotto questa cupola splendente
dove il sorriso degli elfi traspare
il canto degli uccelli ascolteremo
e guarderemo il sole tramontare.
Ai nostri piedi fumiga la valle,
di soppiatto la terra si misura
e ai ceppi dell'ulivo e della vite
uno speciale umore segretamente invia.
Come un Gange impetuoso e incatenato
senza arrendersi evapora il terreno
e non permette che vada sprecato
inutilmente il suo maschio vigore.
In fondo alla vallata come un nano
senza riposo lavora il villano,
ma nella fresca brezza della sera
sopra di lui, la valle e la giogaia,
col suo giocondo amante
s'alza al volo la rondine gaia.
Del futuro non sono preoccupati:
per nutrire la loro figliolanza
pochi chicchi di grano abbandonati
saranno stassera abbastanza.
Quanti profumi, quale esuberanza!
Quante dolci memorie e nostalgia
quest'appena iniziata primavera
sta destando nell'anima mia!
Forse il suo alito già sopra i flutti
di mari lontani ha soffiato?
Sì, cos'è
che fra i tralci opulento scintilla
dallo splendor dell'etere arricchito?
Come un evviva, subitaneo,
un pensiero mi fa battere il cuore:
questo fulgore è il mare... Mediterraneo!
Dunque quest'onde chiare
questo manto lucente,
furono essi a portare
del saggio Enea i dorati vascelli.
Certo era primavera come adesso,
l'aria era sacra e pura
quando la dolce Italia
con l'oro del tramonto
gli diede il suo saluto.
Vigorosa la prua solcava l'onde,
quasi volando qui il legno approdò
e l'ascesa del monte dietro il bosco
Enea con i suoi uomini iniziò.
Sempre questi ridenti scintillii
che attirano lo sguardo,
e lo stesso giocondo benvenuto
come se niente da allora sia mutato.
Sospirare dovresti piuttosto,
ma tu, freddo mare, sorridi!
Sereno baci della grandezza l'avello
come altre volte ne baciasti la culla.
Il sole tramonta, il giorno si compie,
la valle e la bassa sterpaglia
contro tenebre e notte dan battaglia.
Solo la sommità delle rupi
di smorto rosa serale ancor si tinge
sulla pallida gota d'Ariccia
che, alta sul suo trono di roccia,
siede come una vecchia canuta,
raccontando che lei era già antica
quando Roma giaceva ancor neonata.
Sullo specchio del mare lo sguardo
senza riposo vagola esplorando,
e se una vela scorge in lontananza
si sprofonda in confuse riflessioni
e nella mente nascono arcane visioni.
Tra immaginazione e ricordi,
davanti alla desta fantasia,
risorti dalle rovine di Troia
sfila d'ombre d'eroi una teoria.
Zitto, che sento?
Quale allegria, qual canto!
Scherzi e risate infrangono
la silenziosa cupola del bosco.
Dalle vigne giù nella valle
qui sale un coro come se dalla terra
fosse appena sorta
di silfidi una scorta.
Benignamente dal suo empireo Cerere
sorride del giovanile fervore, che fresco
come rugiada antelucana s'è destato
nel giorno che già era spossato.
Quali nobili forme!
Qual nitore di tratti!
Modi liberi, mai però sfrontati
anche se acceso dal sole infocato,
nelle vene il sangue ribolle
come un vulcano a stento soffocato.
Solo dai caldi archi del labbro
e dall'occhio di ciglia scure ombrato
scocca il lampo abbagliante
esplode la fiamma bruciante.
Guarda, davanti all'edicola si fermano,
i piedi vorrebbero danzare,
senti suona l'allegro tamburello!
Fuoco di gioventù ogni saltello,
quando Rosa e la bruna Stella
danzano insieme la tarantella!
Sotto la croce, siede beato
il vecchio mendicante,
di stracci e povertà tutto ha scordato
mentre movendo il capo misura il tempo.
Il Crocefisso a far pia ammenda invita,
la danza ora è finita,
Rosa s'affretta
e con la bocca ancora sorridente
bacia i piedi del Cristo sofferente.
Il sentiero romantico svolta
in direzione d'Ariccia,
suona la squilla, la capanna attende.
Ohimè, or se ne vanno!
A un tratto sparvero. Vedi,
in mezzo al fogliame i bianchi lini
a mala pena si scorgono. Gioiosi
ancora debolmente s'odono
il tamburello lontano
e di Rosa la voce ridente.
Intorno a noi tra poco
tutto sarà silente
e soli di nuovo saremo.
I dolce splendore del sole è svanito,
il primo vento notturno passa nel bosco
e sussurrando piega le alte fronde.
Qui in tempi antichi
tese Diana il suo arco
e per la selva corse cacciando.
Infelice colui che a osservarla indugiò.
Con la vita dovette pagare
il suo indiscreto guardare.
Se le sue antiche selve
oggi la dea vedesse, coi ruderi
degli alti muri del suo tempio,
e noi in questi suoi luoghi
la sdegnata oggi incontrasse,
preda atroce saremmo
dei suoi cani spietati!
Andiamo via di qui! Un dio so allegro,
anche se lì ove il suo tempio sorse
or son macerie.
Lui, liberi, osiamo guardare negli occhi,
lui, Bacco, l'inclito dio del vino.
Orsù, cerchiamolo! Lui non s'arrabbia!
Di tutti i vecchi dei è il più sereno,
vieni, beviam letizia dal suo sguardo!
Incontro con Bacco
I roridi giardini di Frascati
giacevan come bimbi nella culla
succhiando la rugiada del mattino,
quand'io lentamente, col mio somarello,
di Monte Porcia alla volta
mi mettevo in cammino.
Sussurrando, traboccavano fresche le fontane
che nel grande silenzio tuscolano
suonavano come l'antico: "Taci!"
di quando Cicerone si schiariva la voce,
avanti d'iniziare
il suo conciso e luminoso parlare.
Piccoli uccelli gialli e cinerini
cinguettavano lieti nei giardini,
e nella sabbia scura del sentiero
il mio somaro si fermò a frugare,
poi ridendo con tutti i suoi denti
alzò il muso e si mise a ragliare.
Per rimetterlo in moto,
alle sue lunghe orecchie
mi bastò avvicinare le castagnette gaie
che spesso nelle notti di allegria
mi divertivo a suonare
in lieta compagnia.
Così, tranquilli,
or focosi, ora lenti,
in comune letizia
comodamente avanzammo,
e nel rosseggiar dell'aurora
i tetti di Villa Dragoni incontrammo.
Ora il sole, le cime del bosco
con le sue fiamme lambiva,
quando un astore si lanciò dall'alto
e il bracconiere romano,
nel suo costume da caccia,
dietro gli alberi annosi cercò riparo.
Continuavamo impavidi l'ascesa
mentre la vampa del sole aumentava;
Dolce la madreselva olezzava
dalla ripida costa del monte,
dove la capra si stava inerpicando
lieta sotto la barba ruminando.
In mezzo al ragliar del somaro,
udii la campana chiamare
alla prima messa nella pieve
in alto sopra di noi.
Nel cielo come una nuvola
sembrava la sua musica nuotare.
La vetta dorata del monte,
la valle con i suoi ruderi,
gli orti coi pergolati:
vi conficcavo lo sguardo
per conservare il quadro
nel mio ricordo.
E quando apparve alla vista
quella città che risale
ai tempi di Catone,
smaniai di potermi ristorare
col vino che soleva
anche "la sua virtù corroborare".
Il ciuco era informato
del mio dolce sognare,
e avanzava spedito
senza sbagliar la via,
per sostare alla frasca
ch'è insegna d'osteria.
La calda mattina del sud
già la sua afa spargeva.
Ma con qual refrigerio
l'ombra della locanda
la fronte mi cingeva
d'una fresca ghirlanda!
In un pozzo profondo,
scavato nella roccia,
al centro della stanza
forte squillava un'eco.
Io vi gridai "Evoè",
e subito dal fondo mi risposero in tre.
Intorno all'ara di Bacco
c'era un lieto clamore,
cenciosi semidei davano
fuoco e vita alle parole,
sciolto sul braccio il mantello
e balenante la lama del coltello.
Ma accanto a me un giovane
si stese sulla panca
come assorto in serene riflessioni
con un sorriso sognante
che in me vaghe memorie
d'antiche statue svegliava.
Il sandalo con cura allacciato
il piede gli cingeva,
un braccio a sostegno del capo,
l'altro col suo bicchiere,
come da Fidia scolpito,
ignudo sul desco giaceva.
Lottando con altri polmoni
dovetti alzare la voce:
"Vino!" ogni gola gridava
"Vino!" era il mio gaio messaggio,
e finalmente dal fondo della grotta
il dio mi fu portato per l'assaggio.
Il fresco liquore olezzante
versai nel mio bicchiere,
e scintillante alla luce
del fulgido giorno l'alzai.
Poi a grandi sorsi biondi
lo trangugiai.
Quando gli occhi abbassai,
ridenti quelli del giovane incontrai.
La mezzanotte non offre
un cielo più stellato.
A quello scintillio, rimase
il mio sguardo incatenato.
La mia estasi lo divertiva,
il mio godimento indugiante
gli stuzzicava lo spirito!
Di nuovo il bicchiere colmai,
mi sussurrò: "Vi piace?"
con birichina allegria.
Ma quand'io per risposta
il bicchiere oscillai col suo splendore
e del monte il vino e il suo ardore
e il suo gusto opulento decantai,
un freddo, deridente "Non c'è male"
uscì dalle sue labbra.
Ripetei:"Non c'è male"?
"Dimmene uno migliore"!
Sorrise: "Sì, signore"!
"Di questo?" l'interruppi
"Sì", rispose, "Per Bacco!
Un meglio assai!"
E rapido s'alzò e con un gesto
sulla soglia a sè mi chiamò.
Subito, intorno a noi, il giorno
brillò nella sua gloria,
mentr'egli avanti a me quasi volava
lieve incedendo nella sua gioventù.
Io non guardavo la strada,
vedevo solo i suoi sandali
e il suo passo che il suolo
appena sfiorava, e il suo sorriso
quando ogni tanto il profilo
superbo verso di me voltava.
Davanti alla sua casa ci fermammo.
Un solitario rudere d'antiche pietre
che pittoresco sorgeva,
e sanguigno e ardente
si lasciava abbracciare
dall'edera selvatica.
Nel muro una porta arrugginita
col dito egli appena sfiorò.
Una scala scendeva nell'abisso
e la luce del giorno era svanita.
Il gelido grembo del monte
col suo brivido mi salutò.
Il passo mi fu d'uopo rallentare
e cautamente mi feci guidare.
In fondo alla scala un lumicino
gettava un suo debole chiarore
che appena un poco alleviava
il greve notturno buiore.
Allora la sua ombra
s'allungò gigantesca
dal fondo oscuro dell'antro
sulle pareti e la volta,
mentr'io della prudenza sulle grucce
lentamente avanzavo.
Le sue mani gioconde
diedero vita nuova alla lanterna.
Accese ogni stoppino,
e limpida la luce mi raggiunse,
come chiaro di luna,
della scala nell'ultimo gradino.
E quale vista eccelsa!
Sette barili di tralci e foglie
bellamente ornati,
s'allineavano in fondo alla caverna
sotto l'arcata del monte celati,
come dentro la bocca d'un gigante.
Stavano come forze soggiogate
fingendo uno stregato sopore.
Ma, fermentando, lo spirito libero
anelava soltanto,
al primo colpo d'ala della notte,
a spezzar le catene.
Graziosamente appoggiato
stava "colui" che non so nominare
e, con scherzosa intesa, alzando
il boccale prezioso: "Signore,
cominciamo!" disse con voce squillante
come argento armonioso.
E il trasparente sifone,
rapido come il vampiro,
giù con la mano sapiente
nel nascosto mare affondò,
e un vinacciuolo
da un piccolo tralcio succhiò.
D'un timido rossore
ne tinse appena il fondo,
e con la sua dolcezza ricordava
il primo bacio d'amore.
Ohimè, chi di noi fosse vincente
già allora era evidente!
Ma il trasparente sifone
di nuovo come il vampiro
giù con la mano sapiente
nel secondo mare affondò,
e un acino più grande
da un altro tralcio succhiò.
Del rubino le torride zone
non producono stille più rosse!
Con l'infocato sangue del leone
le mie vene scaldava e, in quel momento,
regni avrei conquistato
col mio solo ardimento.
E di nuovo, come il vampiro,
affondò il trasparente sifone
e da un tralcio
succhiò un grappolino.
Poi con sorriso astuto
il colmo bicchiere mi porse.
Sentivo il sussurro del vino
come le corde d'un'arpa lontana,
quasi che in Elicona, lungamente,
mi fossi dissetato
e il potere delle olimpiche muse
l'animo d'entusiasmo mi colmasse.
Esultavo e lodavo
il dio Bacco in Empireo.
Allora il suo occhio brillò,
non rispettò la serie
e al settimo e ultimo tino
deciso si fermò.
Il cratere abbassò
e ne scese di fuoco una cascata.
S'udì come di fronde uno stormire
e si diffuse un profumo di vino
che colmò la caverna
di rose e gelsomino.
E il getto lasciò spumeggiare
sul bordo del cratere,
sinchè le bianche bolle
a piramide esplosero.
Allora, con un "Eccolo!"
mi presentò il bicchiere.
Bevetti, l'occhio fisso
oltre vapori e scintille,
c'era un velo di perle misterioso
una lanterna magica,
dove guardavo turbato
ma più che mai beato.
E dalla terra mi parve che rombando
delle colonne marmoree sorgessero,
e al peso della volta,
una spalla porgessero,
mentre l'edera intrecciava ghirlande
sull'alabastro del muro;
Una strana nebbia scendeva.
A un tratto gli allegri tini
scomparvero e, al loro posto,
sette gialli leopardi
giacevano feroci
con le zampe incrociate.
Come sotto narcotico guardai
all'efebo dal sorriso
che s'appoggiava al suo tirso.
Al suo sguardo tremai
e caddi nella polvere
balbettando: "Dioniso!"
Perchè altro soggiungere?
Quando pigra la mente si destò,
al riparo nel bosco giacevo
sulla strada per casa.
Tutto intorno era pace
e si era fatta sera.
E il somaro indolente,
con le sue lunghe orecchie,
in piedi accanto a me era presente:
Come? Chiedilo a Bacco!
Una pagliuzza gli pendeva dal muso
e l'occhio sonnolento era un uscio socchiuso.
A che scopo pensare,
brancolare nel vuoto?
M'appellai alla ragione
che in testa predicava:
"Un forese era il nume
la mia non fu che sbornia!"
"Non era che un bifolco"
mi ripetevo audace
quando un riso sommesso mi risuonò vicino
e la forma d'un piede caprino
mi parve di vedere
alla radice dell'albero.
Rapido mi levai col batticuore
e con l'anima in preda a panico terrore.
Sul groppone il somaro la mia verga sentì,
e cominciò a trottare
mentre la strada buia continuava
di risa e di sussurri a risonare.
Solo in quel di Frascati
terminò la malia,
e fu ricordo e sogno
mistero e fantasia
più soave d'ogni altra
che Esperia mi donò.
Spesso tornai nel bosco
sperando d'incontrarlo,
morì la mia speranza,
non si rifà il prodigio,
è per sempre scomparso
non lo vedrò mai più.
(Le parole in corsivo sono in italiano nell'originale)
Nemi
Come tristi miasmi su una tomba
ora regna su Roma lo scirocco:
il forestiero il suo bordone afferra
e fugge via senza volgersi indietro.
Ancor più biondo scorre il biondo Tevere,
mentre in lunghe teorie i fraticelli
pensando al refrigerio del convento,
camminan curvi nelle strade afose.
Solo il Romano è fedele al suo nume:
l'esperienza gl'insegna a sopportare
lo smorto raggio foriero di febbre,
e come un bimbo gode nel guardare
Piazza Navona ad arte trasformata
in un piccolo mare che in carrozza
passa felice della traversata.
Di sera sosta alla Tomba d'Augusto
e attentamente con gli occhi suoi scuri
segue nel cielo i fuochi di bengala,
giubilante e beato, senza poter capire
che il forestiero sia voluto fuggire.
Intanto a se stessi abbandonati
stanno una notte arcana in Vaticano
dei tempi antichi le fragili effigi
delle elleniche dive e degli dei
infin non disturbati da occhio umano.
Ecco che Apollo abbassa braccio ed arco
e le stupende membra sue divine stira,
mentre afferra la lira e l'accorda,
lento volgendo nella sala il guardo.
Dal suo cippo di marmo,
scende Minerva a volo
profondamente nel cuore turbata
e con mestizia negli occhi pensosi.
Anche Marte s'affretta
e a Venere offre il braccio,
da un benevolo inchino ricambiato.
Talia burlona arriva in calzine,
e con lei Melpomene, alla guida
del coro delle muse divine.
Tutti s'affollano intorno ad Apollo
e anche Giove scuote impaziente
la sua folta chioma fluente,
quand'ecco il figlio sfiora le auree corde
e intona un lamento struggente
sui vecchi tempi d'un passato illustre.
E mentre ei canta,
l'eccelso e mesto,
si chinano le teste,
e le lacrime scorrono
giù per le bianche gote.
Piangono muti gli olimpici dei.
Ma taci! Passi mortali s'appressano!
Di colpo son silenti
la lira e i purissimi accenti,
la scena arcana d'un tratto è sparita.
Uno sguardo d'addio,
e di Giove la figlia avvenente
di nuovo si copre con la mano pudica,
mentre Apollo di nuovo l'arco tende
e di nuovo Pitone
l'angoscia di morire soffrirà.
Perdona, cara idillica natura,
se dalle tue fresche delizie circondato
me ne sto a ricordare quelle mura
che il mio giogo invernale han conservato.
Ma Roma è una gabbia stregata
e non v'è uccello al mondo
che una volta da essa catturato
possa mai più sentirsene affrancato,
e che al piede non continui a portare
un invisibile laccio.
Ma Nemi, anche tu hai la tua malia.
Un magico cerchio d'olezzanti alture
dove tu, specchio di Diana lucente,
m'hai incantato e mi tieni in balia,
ristorandomi dolce corpo e mente.
Sul mio omero sento il tuo braccio
e sulla guancia il tuo anelito fresco!
Neppur la giovinetta il cui cuore
sotto la vergine neve ancora intatta
batta la prima volta per amore,
è per l'occhio visione più attraente
dei tuoi tralci con l'uva fulgente.
Oh, dimmi! Come potè Diana restar fredda
in queste selve, dove si curva il ramo
come arco d'amore per Cupido già pronto;
dove abbondante lo zampillo argentino
sgorga e schiuma nella fresca sorgente,
e l'usignolo annunzia una notte di mirto,
mentre i raggi del sole che tramonta
baciano il monte?
Mattinata a Nemi
Svegliati, Alberto, che si è fatto giorno!
Sto contando il rintocco mattutino,
che sul lago risuona da Genzano.
Senti, fruscia il paglione del villano
e di fame piagnucola il bambino.
Orsù, finiamo la notte opprimente!
Ricorda che abitiamo su una vetta
dove il buio sosta brevemente.
Vedi, già a fasci la luce zampilla
dalle fessure dell'asse
ch'a mo' di vetro chiude la finestra.
Vieni, scacciamo il corvo che svolazza
lugubre nella nostra cameretta,
e apriamo alla bianca colomba del giorno
che di nuovo ci porta messaggi di vita.
Con prudenza, però! Ahimè, la luce abbaglia.
La fulgida fiamma dell'alba dobbiamo salutarla
come una diretta rivelazione di Dio,
coprendoci timidi gli occhi con due mani.
Leggiadro il Sud ci dà il suo buongiorno;
nella verde corona dei suoi picchi,
come metallo lucente sta il disco del lago
e con occhio affettuoso ci osserva.
Qui come una vergine Genzano, rosea d'aurora
si china sull'acqua. Silenziosa e appagata
si riflette, con campanili e tetti capovolti
senza osare un sospiro dalla terra,
perchè, vedi, alla prima folata,
lo specchio s'è appannato e il quadro cangia.
Solerte la fresca mattina saluta la vita.
Prima che il giorno infiacchi col suo pigro calore,
vedo laggiù nella fratta il pescatore
che a piena gola canta le delizie d'amore
e in mezzo ai giunchi spinge la barchetta
che sul lago galleggia come un fiore.
Sull'altra sponda dalla parte opposta
dove tra fichi e viti sorge una capanna
dirige esperto e con cura il timone.
Nei tempi antichi in quel punto Tiberio,
nella sua nave dal fasciame dorato
e di gemme e d'avorio tempestato,
e con tralci di vite che bellamente
ornavano l'alto pennone e la barra,
mentre uccelli rari tra macchia
e fogliame cantavano, annegò.
Dalla terra scomparvero i ruderi antichi
e negli abissi del lago la nave affondò
con gli dei e le dee e il suo splendore!
Ma il ricordo fra il popolo è ancor vivo,
e il pescatore qui getta le reti
perchè la carpa nel grasso fondale
in mezzo all'ornato fasciame cerca il cibo,
e l'anguilla s'insinua voluttuosa e lenta
della Cipride fra i seni torniti.
Ora sul lago risuonò uno sparo,
l'agile cacciatore ha inviato
il suo messaggio al fogliame
e un uccello ha riposto nel carniere;
presso al sommerso tempio di Diana,
lì dove ancora il rudere è visibile,
ricarica tranquillo il suo fucile.
Altre volte però della caccia
quasi s'era scordato, nascosto e solo
in piedi dietro un albero, fremente
e dolcemente ansioso scrutava
in mezzo alle foglie e alle fronde.
Or nelle crepe dei fragili muri
col suo freddo senno abita il gufo,
e nella terra casta e come altare sacra
traccia solchi profondi l'utile aratro.
Ormai non ci son più impronte arcane
o ninfe da spiare.
Vedi, bianchi vapori s'alzano
figli del freddo albeggiare,
in una morbida nube si plasmano
che sul Monte Cavo alta veleggia;
e mentre, giù nella valle,
multicolore e serena la vita
sorride al suo figlio novello,
in cima alla montagna, nella nebbia,
solo deve pregare il monachello!
Sempre più forte è lo splendor del sole
e dalla nostra rupe
grandiosa è la visuale sulla valle
che luminosa e ricca si prolunga
come un ampio e ubertoso labirinto.
Celestiale natura!
Lago, vallata e mura di pietra arcuate
tutto qui in poesia voi tramutate!
Fuori, il pianoro giallo della Campagna
senza ombre, senza foglie sui rami,
severo si presenta come dell'esistenza
la necessaria prosa.
E del mare il remoto, sconfinato manto
col suo orlo d'argento,
da entrambe distoglie la mente
verso le plaghe dell'eternità!
Ritorno a Nemi
Ti venni incontro impaziente
e, fremente di gioia,
con la torre nell'oro del tramonto,
caro borgo roccioso ti ritrovo!
Sorride il tuo bosco annoso
con ancor giovanile vigore,
e del tuo specchio immutato
è l'antico splendore.
Già altre volte insieme conversammo,
tu lieta casa in bilico sul ciglio,
ma se una volta l'uzzolo
di saltar ti venisse... lo pagheresti caro!
Però Maria dov'è? Non è a casa?
Oh taci! Ora comprendo,
lì sta il piccino e piange...
Tutto vestito a lutto il poverino
con l'abituccio scuro, cucito
nella stoffa dell'abito materno.
Dunque Maria è morta! Quanto cara mi fu!
La sua voce godevo ad ascoltare
quando, al primo mattino, in casa
e sulla rupe si dava a sfaccendare.
Con gran fatica riuniva il pollame,
poi dolce e svelta portava il mangime.
Ma con la scopa dal cibo escludeva
le gallinelle cui un rosso anellino
la zampa non cingeva.
Ora, Maria, è terminata
la tua breve giornata.
Sei tornata al Creatore
che a sè tutti ci chiama, senza eccezioni,
con imparziale amore. Amen!
Teresina! Sei tu?
Che cambiamento!
Dunque non Psiche soltanto
dal velo arcano della sua crisalide
può scaturire! Ancor poc'anzi in boccio,
nel regno del mistero
stretto il tuo fior chiudevi.
Ora il mistero divenne...
una graziosa fanciulla!
Timida non celare
la mandorla degli occhi,
e dammi aperte le tue belle mani!
Vedi, Teresa! Da Roma il Papa
ti manda un rosario!
Sorriso devoto! Grata e felice
mi guarda negli occhi,
un poco arrossisce e il dono appressa
alla sua fresca bocca di rosa.
Che ne sia io l'obiettivo segreto?
Ma no, ahimè, è al Papa che pensa!
Che larga spaccatura qui nel muro!
C'è stato un terremoto di recente?
Guarda, attraverso la crepa
passa la luce del giorno minacciosa!
Sì, ridi, tu sangue beato,
ora che il cielo calmo s'inarca.
Ma dov'è il tuo infantile coraggio
quando tutta la roccia traballa?
"Oh, con la sua grazia la Madonna
di certo la nostra casetta protegge,
e quando il pericolo è maggiore
il bravo Sant'Emidio ci soccorre."
Incrollabile fede che mai t'abbandona,
e che dal profondo del cuore
non si limita a muover le montagne
ma addirittura le fa rattenere!
Ora tramonta il giorno,
il sole cala dietro le acque buie,
presto il mattino
in paesi lontani esploderà
con pigolio d'uccelli e con rugiada,
mentre qui, luminosa di stelle,
sulla terra la notte corre veloce,
non esitante come al Settentrione.
Qui cade improvviso il sipario
sulla commedia del giorno.
Ma anche l'ultima scena della sera
dietro il buio fogliame
ha una sua grazia agreste.
Teresa ha issato la conca sulla testa
e, agile, con le bimbe alla fonte s'affretta.
Senti le risa, gli scherzi e le beffe
e l'acqua che nel rame sonoro gorgoglia.
Santamente guardando, il pingue francescano
passa, qui un poco il piede rallentando.
E' una sua pia abitudine, in questo luogo
d'offrirsi una presina di tabacco.
Giù per la valle s'accendono fiammelle
e nel cielo s'affacciano le stelle.
Nel sentiero del monte
torna a casa il villano lentamente
e tra sé d'afflizioni d'amore canterella.
Come un cane affettuoso, il maialetto nero
grugnendo, gli cammina alle calcagna.
Guarda, il lago nella calma sera estiva
è limpido e sereno come un animo saggio.
Mentre il mare, in continuo fermento,
deve cullare la sua prole inquieta,
il piccolo lago se ne sta tranquillo,
i colori del cielo riflettendo.
S'ode lontano lo scroscio del torrente
che, per tortuose vie, sbocca nel lago
dopo aver col suo flusso cristallino
mosso il molino.
Della sorgente cantano gli antichi
che, quando Numa sbiancò nella morte,
smarrita in doloroso vaneggiare
l'innamorata Egeria con silenzioso pianto
nel bosco di Nemi si mise ad errare.
Ma i suoi sospir d'amor condusse il vento
alle severe orecchie di Diana
che della cerva l'estremo lamento
preferiva ascoltare.
Si corrucciò la dea. Ed Egeria,
la bella fanciulla, scomparve
dissolta in sempiterno pianto.
Quando il lago di Nemi
vide apparire,
molto della sua impresa
si compiacque Diana.
Sì, e ancor molto gode
al chiarore lunare,
terrore degli amanti,
in questa grande lacrima d'amore
le sue fredde sembianze rispecchiare!
Il pescatore di Nemi
L'Ave Maria rintoccò dal monastero,
e fu come se l'aria della sera
si rinfrescasse alla limpida squilla.
Come in sogno il crepuscolo ombroso,
il suo velo calò
sulla montagna e la città silenti,
e il novilunio la sua luce accese
nello specchio del lago,
e sulla riva e il capanno brillò.
"Giovanni, smettila di bere, se puoi!"
Pietro gridò. "E, per Sant'Antonio,
non scherzare con Nanna! io vado via!
Se vuoi nuoterai sulla mia scia!
In barca porta solo il mandolino,
e dammi il remo! Ora salpiamo!
Già nelle reti si dibatte il pesce,
dobbiam tirarle, mentre ancor fa fresco!"
E nella tacita notte il remo sciaguattò.
Lungamente, sulla sponda del lago
Nanna restò ascoltando.
Tra cespugli e fratta
balenavan le lucciole e, sull'acqua,
echeggiava struggente il mandolino.
Così bella era la notte!
Sospirando, rientrò Nanna al capanno,
e quando accese il lume, gli uomini
erano già lontani, presso le reti.
"La mia rete è leggera," gridò Giovanni,
"ma la tua come oro è pesante!
Pietro, dobbiam dividere!
La fortuna è santa se con altri è spartita!
Su Pietro, forza con le braccia! Coraggio!
Come un pesce grandissimo scintilla,
ma stranamente è inerte! Issa, oh!
Ma, per Diana, è uno scudo d'argento!"
Una splendida opera antica
risaliva dal regno dei morti.
Dal suo pallido sfondo,
Gorgone, l'anguicrinita,
il suo sguardo impietrente
posò sui pescatori.
Ma alla bocca e al petto,
con folle desiderio Pietro stringeva
il gelido argento,
e: "Giovanni!" gridava col viso stravolto,
"Io tengo lo scudo, tue sono le reti e la barca!"
Allora l'altro, come neve bianco,
con la mano tastò sotto le vesti:
"Pietro, non scherzare! Il giusto è giusto
se vuoi uscirne vivo!"
"Ma quale giusto?" gridò Pietro furioso,
"di che stai parlando?
Lasciami, e attento a te!"
La lama scintillò, spietato e silenzioso
fu lo scontro, e ai colpi
oscillava il battello con violenza.
Quando finì la notte e l'alba sorse,
e la rugiada copriva erba e fronde,
di nuovo s'udì il remo e la barca approdò.
Rapida Nanna uscì dalla capanna,
ma tacito e solo Pietro a bordo sedeva.
"E Giovanni?" domandò la donna con lo sguardo.
Allora Pietro alzò l'argenteo scudo
e di Medusa rispose il duro volto.
L'estate che seguì, rimessa a nuovo
e ornata era la capannuccia.
Sotto l'ombra del fico, da padrone,
sedeva Pietro, mentre la sua uva
maturava al sole.
Ma buio come asciutto torrente montano
era il suo umore.
Freddo, tacito e chiuso,
preferiva restar con la sorella,
la silenziosa Nanna, e mai tra loro
il nome di Giovanni si faceva.
Soltanto in pieno giorno
Pietro alle sue reti ritornava,
e spesso quando l'occhio del sole di luglio
all'ombra del tetto ogni vivo obbligava,
usciva al largo e con tramaglio e pertiche
il fondo buio del lago a esplorar s'ostinava.
Tornava a riva sconfitto e morto di fatica,
ma l'indomani ancora si destava il coraggio
che col sangue ammorbato lo spingeva a salpare.
Era la mezzanotte, tutto intorno era calma,
ma, sulla riva, un lume ancora bruciava,
e accanto al giaciglio di Pietro
Nanna fedele vegliava.
Alla Madonna i ceri aveva acceso
e sedeva piangente, con l'animo colmo d'angoscia,
stanca stringendo fra le dita il rosario.
Ma a un tratto greve il suo ciglio si chiuse
e in una nebbia tutto si confuse.
Nel mortale silenzio della stanza
solo s'udiva
l'umido crepitio delle candele.
Il malato s'alzò
e con mani tremanti gettò le coltri.
Come brage ardeva il suo sguardo.
Sui vetri la luna giocava coi suoi raggi.
Rabbrividendo di febbre la fissò il malato
e gli parve che fuori qualcuno gli ammicasse,
e che un potere invisibile a uscire l'obbligasse.
Fredda l'aria notturna alitò su di lui.
Il tondo lago, scintillante di luna,
divenne ai suoi occhi febbrili
un gigantesco scudo
che inondato d'argento lo attirava.
Tese le braccia a quella sua chimera,
svelto salì sulla barca che, fulminea,
lo portò al largo dove l'acqua argentea
tinniva e sfolgorava attorno ai remi.
Curvo sulla murata,
Pietro si diede allora ad imbarcare
l'acqua bianca di luna, come se argento
stesse schiumando dal pelo del lago.
Ma all'improvviso l'astro lucido e tondo
sparì dietro una nube, e l'argento affondò.
Quando i pallidi raggi
di nuovo brillarono sul lago,
la barca andava col morto alla deriva.
A Thorvaldsen
(Otto marzo 1828)
Scendi, Dioniso! unisciti a noi,
dolce Dio, e spremi il tuo vino migliore!
Con gioia e devozione, con ardente fervore
sia vuotato il boccale!
A colui si brindi che, forte e ardito
partì come un Giasone dalla costa danese,
e in terre lontane vincitore, al suo paese
l'antica arte da lui resuscitata dedicò!
A colui che alla divina stirpe estinta
nella magica argilla nuova vita plasmò!
A colui che in sublimi epopee con quel d'Omero
il suo plettro-scalpello accordò!
A colui sul cui animo sensibile
la davidica musica profondamente operò!
A colui che nell'effige d'un Portator di Pace
un Cantico dei Cantici novello ricreò!
Dal Sud al Nord il suo splendido Giorno,
colmo di fiori vedemmo balzare;
voglia alla terra afflitta la Notte
sulla sua ala a rapirlo tardare!
Scendi, Dioniso! nel brindisi unisciti a noi,
dolce Dio, e spremi il tuo vino migliore!
Con gioia e devozione, con ardente fervore
sia vuotato il boccale
Piazza Barberina
(Roma, 1830)
La notte afosa ha elargito i suoi doni,
fresca come un bicchiere d'acqua
è l'aria del mattino che il profumo
d'aranci dei giardini romani
porta dalla finestra spalancata.
In piedi sul suo nicchio, si prepara
il tritone al calore del giorno:
ha sollevato le sue braccia nude
con la buccina premuta alle labbra,
per estrarre tonante dalla terra
uno zampillo enorme che spumeggiante
gli scivola sul petto e sulle spalle
e la caduta termina frusciando.
Ho udito la sua musica stanotte,
ma, più sussurrante e più tenera,
nel sonno dolcemente mi cullò
e tornò nei miei sogni.
Ora il tritone ha avuto compagnia,
una greggia barbuta di litigiose capre
attorno alla fresca fontana
rapidamente in massa s'è accampata,
e, per consuetudine antica, pei romani
su quelle pietre roride produce
un'agreste bevanda mattutina.
Vigilante sta il bruno pastorello
che saggio il suo gregge conduce
e tanto soffia nel suo zufolo verde
che lo stesso dio Pan se ne diverte!
Il superbo palazzo Barberini,
dal suo tetto inondato di sole,
beffardo abbassa un altezzoso sguardo
sul pastore col suo berrettuccio appuntito
e le sue vecchie cioce impolverate.
La sua espressione dice chiaramente
ch'oggi, dietro i suoi muri, sognano cardinali
e che persino un papa, di genti pastore
e di genti esperto mungitore,
v'ebbe ieri i natali.
Sì, dall'oscurità può nascere il sublime
e la stalla il divino può celare!
Quella bassa stamberga che, umilmente,
dal sontuoso palazzo si discosta,
e che ancor dei cavalli
che dianzi albergò porta l'impronta,
coi suoi poveri muri in ruvida tela celati,
ha gli sguardi d'Europa su di sé concentrati.
E ogni spirito colto, pur di regal lignaggio,
che a Roma abbia guidato il suo viaggio,
qui trova la meta genuina del suo pellegrinaggio.
Perché vedi: lì un genio dimora!
E' come se grazie a lui la volta s'alzi,
come se ciò ch'è basso, volando se ne fugga.
E i drappeggi sul muro sono nuvole,
lì dove nasce dal marmo la beltà,
dagli dei dell'Olimpo circondata
e del Cristo dalla serena maestà.
Gia ha messo l'ali il mattino,
sul tetto dell'arte si fa giorno.
Lo scalpello si muove e tintinna
come se a colpi leggeri ma avveduti
al suo disegno stia forzando il marmo.
La bionda argilla dal Tevere è giunta
sull'asse del cavalletto dell'artista,
ma ancora, come in un sogno, la statua
in umidi panni è avviluppata.
Priva di luce vitale e di calore,
si crede ancora dai flutti circondata.
La campana dei frati cappuccini
chiama alla prima messa,
ora c'è vita in piazza Barberini!
"Buon giorno Rosa! Buona mattina, Celestina!"
e tutti al convento dirigono i passi.
Gli occhi castani, foschi astri del giorno,
col loro dolce splendore inebrianti
ancor più del falerno più soave,
sul pio rosario devoti ora son fissi,
per un istante il lor fuoco celando.
Sulla piazza s'adunano i foresi dell'Agro
dai fulgidi occhi e dai visi abbronzati.
Ma l'acqua del fiume Lete hanno bevuto
e tutti, insieme al valor degli antenati,
di libertà il bisogno hanno scordato.
Pensano solo a pentirsi ogni giorno
e dei peccati a chiedere perdono.
Ma forse no... quell'uomo intabarrato
che lancia al tritone un'occhiata
che un tiranno dal trono
potrebbe rovesciare,
e vincoli e catene e ogni legame spezzare,
quanto somiglia a un Bruto che l'acciaio
di libertà nasconde nelle pieghe del pallio.
Forse quell'uomo... oh no! l'anima manca!
Tutto si dilegua in fantasia: guarda,
un frate gli passa davanti ciondoloni,
e Bruto... all'improvviso che premura
di scappellarsi e fargli il baciamano!
A destra, dove la piazza finisce,
nell'angolo con la fontanella,
ora il mio spirito è attratto.
Il primo mattino è passato
e colui che aspetto
non tarderà ad arrivare:
non di bruciante splendore d'occhi scuri
ho desiderio, ma di cilestrini:
uno sguardo sidereo che la mia patria manda,
un'aurora polare cui tutta Roma guarda:
Lo sapevo, la mia speranza non resta delusa,
eccolo, arriva per la sua strada abituale,
e attraversa la piazza in diagonale.
Gli sguardi e l'espressione della gente
ad ogni passo gli rendono omaggio;
anche il tritone sembra alla fontana
voler sottrarre un getto più potente
per porgergli rombante il suo saluto
prima che dal suo Vaticano sia inghiottito.
Viene dalla sua dimora silenziosa
dove già il suo genio solerte è passato,
e in mano stringe ancora un po' d'argilla
che sollecito plasma, camminando.
Una figura alta e mascolina, eppur sì dolce,
e quale fronte, traboccante d'anima e pensiero!
La sua folta criniera ondeggia
sull'ancor fresco ardore delle gote,
e il leggero, modesto spolverino
qua e là racconta d'essere stato
al gesso troppo vicino.
A larghe falde un cappello lo ripara dal sole,
e tutto il suo lusso è del colletto
il bianco splendore, mentre, a volerlo,
con un firmamento di stelle e di croci lucenti
il petto potrebbe coprirsi!
La sua andatura ricorda l'onda
che sale e mollemente scende.
Presto vedrò il suo ultimo passo
vicino a quel muro
dietro il quale scompare.
Tutto ora s'è fatto vuoto!
S'eclissa la luce che arrivò
e terminò col suo passare.
Ora m'accorgo che il pesante
sole del Sud arroventa
e dei faggeti danesi ho nostalgia.