Il ramo d’oro

Bisogna rifarsi al mito di Ippolito, figlio di Teseo (quel Teseo che uccise il minotauro). Ippolito era un ragazzo molto amante della caccia e quindi devoto ad Artemide (l’equivalente greco di Diana). Sportivo, salutista e casto, non amava molto Afrodite (Venere, la dea dell’istinto sessuale), e questa dea si vendicò facendo innamorare di lui la matrigna Fedra. Questa fece delle avances al figliastro, che inorridito le respinse e minacciò di dire tutto al padre. Fedra, impaurita, come contromossa raccontò a Teseo che Ippolito l’aveva insidiata. Teseo maledisse il povero Ippolito, che scappò via sconvolto; ma mentre correva col suo cocchio lungo la costa, uscì dal mare un mostro che spaventò i cavalli. I cavalli si impennarono, il cocchio si rovesciò in corsa, e Ippolito morì. Ma Artemide giunse in soccorso del suo adoratore. Ottenne da Asclepio, dio della medicina, che lo risuscitasse strofinandone il cadavere con un ramo di mirto, e portò il ragazzo in un luogo più sicuro, dove non sarebbe stato più molestato: la selva di Nemi, che era il suo regno personale. Per sicurezza cambiò nome ad Ippolito, che da allora si chiamò Virbio. Con questo nome Ippolito regnò sul territorio del bosco, diventando il rex nemorensis.

Ma ad un certo punto ci fu bisogno d’un successore. Un re-sacerdote della natura e degli alberi non può ammalarsi, non deve invecchiare! E deve essere sostituito prima di perdere le forze, e rifecondare la selva col suo stesso sangue. E così invalse l’usanza che, chi voleva tentare di prendere la carica, doveva strappare un rametto di vischio (il ramo d’oro) dalla grande quercia sacra che stava nel recinto del Santuario. Chi riusciva a raggiungere il rametto poteva tentare il duello col re in carica e ucciderlo; o venirne ucciso, ovviamente. Tentavano soprattutto gli schiavi fuggiaschi, che non avevano niente da perdere perché se il padrone li riacchiappava li uccideva comunque per dare un esempio agli altri schiavi. In realtà questo cruento avvicendarsi di re è il rito dell’uccisione del divino paredro di cui sopra, solo che ormai siamo in periodo patriarcale: gli uomini hanno capito che la discendenza dipende anche da loro, spodestano le donne e ribaltano i ruoli. Ma l’usanza sanguinosa resiste, e così il nuovo capo deve ammazzare il vecchio per prenderne il posto. Lo stesso nome Virbio la dice lunga in fatto di tramonto del matriarcato: è composto da vir, radice che indica vigore, forza, giovinezza (ne deriva l’aggettivo viridis, verde, che è il colore delle piante in piena floridezza) e da bios, la vita; e vir in latino significa uomo. Virbio è, insomma, l’uomo vigoroso, l’uomo che è riuscito a trionfare sulla donna ed ha preso il potere grazie alla sua forza fisica.

Quanto al vischio, si tratta di una pianta parassita che cresce direttamente dal tronco degli alberi, e che agli antichi sembrava particolarmente magica perché stava, per così dire, sospesa fra cielo e terra, senza affondare le radici apparentemente da nessuna parte: quindi una cosa divina, forse anzi mandata direttamente dagli dei insieme al fulmine. Insomma, una specie di credenziale "dall’alto" che bisognava avere per tentare la sorte e il dubbio onore di diventare il re del bosco, l’incarnazione del Dio della vegetazione.